Perché il design thinking è così attuale.

Ho partecipato venerdì scorso ad un seminario del Politecnico di Milano sul design thinking di cui mi occupo da tempo. C’è stata molta partecipazione, alcuni interventi sono stati interessanti, altri meno.

Questa settimana sto tenendo un seminario sul design thinking, per una grande azienda italiana, con la quale lavoro da molti anni, e che da quattro anni mi ha coinvolto nella diffusione della cultura del service design e del design thinking. Abbiamo svolto molti seminari su questo tema con l’obiettivo di “ingaggiare le persone nell’innovazione” dei servizi. Venerdì in un sondaggio immediato circa il 30% dei partecipanti ritiene che il design thinking possa avere questo obiettivo per la loro organizzazione.

Da bambino ho passato molte ore con i “disegnatori” che lavoravano da mio padre (ingegnere e imprenditore), una schiera di tavoli con tecnigrafo per “disegnare” le macchine che mio padre produceva e vendeva. Mi pare ancora di sentire l’odore della carta lucida che si usava per i disegni e il rumore della lametta per cancellare la china quando si sbagliava. Ogni macchina era unica, un capolavoro di tecnica e passione. La passione per il prodotto, quasi artigianale, che ha fatto dell’Italia uno degli attori principali del tempo del Design.

 

Immagine : Di Paolo Monti – Disponibile nella biblioteca digitale BEIC e caricato in collaborazione con Fondazione BEIC. L’immagine proviene dal Fondo Paolo Monti, di proprietà BEIC e collocato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano., CC BY-SA 4.0,

L’uomo al centro

In seguito come product manager e marketing manager in Digital e Microsoft mi sono reso conto presto che se non si pone il cliente – come uomo e cioè considerando i suoi diversi modi di interagire con la tecnologia, con i prodotti e i servizi – difficilmente si riescono a costituire elementi di differenziazione tali da ottenere successo nel business.

Donald Normann è molto chiaro a spiegare questo concetto – dell’uomo al centro – con i suoi tre livelli: viscerale, comportamentale (in cui le emozioni giocano un ruolo fondamentale) e riflessivo, che intervengono nell’interazione con prodotti e servizi.

Venerdì il prof. Verganti – di cui ho apprezzato molto l’intervento – citava Simon (premio Nobel dell’economia 1978). Secondo quanto ha detto Verganti, per Simon business significa pensare come “le cose dovrebbero essere fatte…”. La crescente ondata digitale e la necessità non tanto di fare ancora altre innovazioni, ma di disegnare le interazioni vincenti tra la macchina e l’uomo, sono alla base del crescente successo del “design thinking”.

Basti pensare a imprese di successo quali AirBNB, Google, ma anche McDonald, in cui l’interazione tra l’uomo (in quanto uomo) e il servizio è la chiave vincente per costituire un differenziale competitivo incolmabile. Il grande successo di Microsoft è partito da un’interfaccia.

Strumento, competenze o filosofia?

Il management è pertanto oggi innovazione e se non si pone l’uomo (come cliente) al centro è difficile disegnare prodotti e servizi che generino il famoso effetto WOW (Noriaki Kano).

Non si deve pensare che il design thinking sia uno strumento. Lo è anche, ma sarebbe semplicistico ridurlo solamente a tale.

È – come diceva Kottler tanti anni fa del marketing – una filosofia, un approccio, una cultura che pone al centro dell’esperienza (customer experience) il cliente come uomo (inteso nell’accezione che dà Normann della sua capacità psicologica di interazione, giudizio e comportamento).

La differenza tra il segmento di Kottler e lo “user persona” del service design di oggi, consiste nel fatto che il servizio è costruito intorno a Gianni, una persona in carne ed ossa e non un segmento teorico. Vedo Gianni percorrere (customer journey) il servizio (quanto tempo abbiamo passato all’Ikea le domeniche a sederci sui divani e sdraiarci sui letti…), lo sento interagire con il call center, lo vedo nell’Apple Store per risolvere il problema del suo Mac!

Sarebbe troppo facile adottare il design thinking – strumento – e risolvere i problemi di un’impresa in difficoltà , faccio 100 seminari e trasformo la mia impresa in Apple! Non è così. Porre al centro l’uomo essendo un aspetto culturale, non si fa in un minuto. Come tutte le competenze manageriali per svilupparle ci vuole tempo, chiarezza, focalizzazione strategica e leadership. In questo caso una leadership orientata al design.

Non faccio diventare una banca – digital thinker – semplicemente adottando la metodologia agile! Si confonde lo strumento con la competenza.

Mi è piaciuto molto il manager brasiliano di Tetrapack (Alexandro de Sousa Carvalho), che ha partecipato al dibattito venerdì, spiegava che la sua impresa aveva una cultura molto orientata al prodotto e alla tecnologia, ma con molta umiltà ha messo il suo cliente (le persone delle grandi imprese alimentari) al centro del suo processo di progettazione senza parlare di design thinking, trasformando atteggiamento e cultura, e pertanto realizzando un cambiamento molto importante e decisivo per la sua azienda.

Futuro

Un’ultima nota sul bellissimo intervento di Verganti (i suoi colleghi ingegneri gestionali con tutte le utili informazioni sugli osservatori non potevano che sfigurare rispetto a lui, forse era meglio farlo chiudere!) ha accennato al diverso ruolo del business (vedi Simon) e dell’economia che studia il passato e l’esistente. L’economia si dovrebbe occupare del nostro futuro, non solo di osservare quello che è successo o succede, e magari occuparsi non di profitto (a quello ci pensa il business sia quello innovativo sia quello speculativo), bensì di progresso e di ricchezza mettendo anche in questo caso l’uomo al centro della sua attenzione.

Pensate a quale ruolo “economico” potrebbe avere nei servizi pubblici.

Viva il design thinking!

 

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    Stefano Pivi

    Esperto di management, MBA. Amministratore Stra-Le.

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