Sul Merito
Tra i suoi laureati può annoverare otto presidenti degli Stati Uniti, 75 premi Nobel, 62 miliardari in vita, questa è Harvard. Da sempre chi riesce ad entrarci ha una carriera assicurata. Ma solo il 5/6% di chi fa domanda viene ammesso. Ma quali sono i criteri di ammissione? Segreti fino a poco fa.
Anche il severissimo professore di greco e latino di mia moglie, non comunicava mai le votazioni se non alla fine dell’anno scolastico con un verdetto inappellabile. Perché, ci si chiede, questo professore non rivelava i voti nel corso dell’anno? Perché poteva fare un po’ quello che gli aggradava, mantenendo un potere assoluto di giudizio.
Ebbene Harvard è un po’ così. Non aveva mai dichiarato i criteri di selezione, fintanto che recentemente ha dovuto rivelare i suoi segreti sulle ammissioni ad un tribunale di Boston, a seguito della denuncia di un’associazione studentesca. Si è scoperto che i criteri favoriscono i super atleti, ma anche i super ricchi. Una porta d’ingresso speciale per i grandi finanziatori con una lista denominata Z-List (in un recente articolo di Repubblica si allude al fatto che la z stia ad indicare gli ultimi in classifica in quanto a capacità).
E in Italia?
Noi in Italia però siamo decisamente più bravi di Harvard. E molte aziende mettono del tutto da parte il merito per la carriera.
Sarà a causa della struttura della nostra economia? Tra le prime 40 imprese italiane circa la metà sono in qualche modo (diretto o indiretto) controllate dalle istituzioni pubbliche, che da sempre gestiscono le aziende per potere e non per merito. Molte di esse non sanno nemmeno cosa sia il Performance Management o altre forme di valutazione delle capacità.
Se poi analizziamo il mondo delle 10.000 imprese municipalizzate le cose sono ben peggiori. Ho avuto la fortuna di seguirne alcune come consulente. Nella mia esperienza solo circa il 50% dei dirigenti lo erano diventati per merito, il restante 50% per appartenenza ad un gruppo di interesse. Il problema spesso è che il 50% senza merito era proprio senza alcun merito.
E quelli bravi? Come avevano fatto a guadagnarsi il posto? Come è logico aspettarsi, anche in queste imprese qualcuno che faccia andare avanti la baracca (spesso compito non semplice per ragioni tecniche e gestionali) ci deve pur essere. Ecco spiegata la presenza di dirigenti capaci e meritevoli. Non si può proprio farne a meno.
In una di queste aziende abbiamo assistito ad un assessment dei dirigenti accompagnato anche da un’indagine 360°. Da queste due attività dei dieci dirigenti tre ne erano usciti un po’ malconci. A seguito di un cambiamento politico a livello delle istituzioni locali come per magia questi tre sono stati promossi, anche a discapito degli altri. Uno dei tre ha assunto la Direzione Generale, il secondo quella delle Risorse Umane e il terzo (proprio malmesso) la Direzione Tecnica.
E il resto delle imprese? Le imprese famigliari non sono spesso un buon esempio di meritocrazia (a parte gli imprenditori che le hanno fondate). Molte di esse sono ancora lontane da una gestione manageriale, farcite di parenti in posizioni importanti, che invece di appassionarsi al golf mettono voce nella gestione, frequentemente in modo conflittuale e disastroso.
Si salvano le filiali delle multinazionali. Le multinazionali sono espressione della competitività globale e il merito è l’unico modo per competere, soprattutto oggi che l’innovazione costituisce il principale vantaggio competitivo.
Il merito è il criterio giusto?
Ma il merito è la soluzione per una società migliore? Non diamolo per scontato.
Un esempio importante e significativo di quello che si dà per scontato riguarda la robotizzazione che si dice migliorerà l’esistenza dell’umanità. Ma le tesi non sono tutte così ottimistiche. L’economista Gilles Saint-Paul (Università di Tolosa) descrive quattro diversi scenari per la futura società dominata dai robot: uno scenario socialdemocratico in cui la ricchezza viene redistribuita con sussidi pubblici (pensate è il migliore fra gli scenari prospettati!); un secondo scenario simile all’impero romano, dove il clientelismo domina la vita economica; un terzo scenario dove la proprietà dei robot è più allargata, ma chi non avrà la fortuna di possederli sarà ai margini della società ed un ultimo scenario che paventa una vita tipo Matrix.
Il problema rimane la distribuzione del reddito. E sebbene molti (di solito ricchi) dicono di avere la soluzione in tasca, non pare che nel mondo qualcuno abbia già trovato una via pratica sostenibile, che accontenti tutti.
Lo stesso vale per il merito. Se il merito fosse spinto agli estremi limiti, si può immaginare la nascita di una aristocrazia al posto della democrazia.
Ma il merito è frutto del talento? Pietro Trabucchi nel suo libro “Perseverare è Umano” spiega molto bene che una caratteristica comune è la perseveranza e il risultato è frutto della perseveranza. L’auto motivazione è dunque una caratteristica comune a tutti gli uomini. La capacità di perseverare, di protrarre nel tempo la motivazione è chiamata resilienza. La resilienza si può allenare. Pertanto il mito del talento è controproducente per l’auto motivazione e per i risultati (non ho talento, perciò non mi impegno, tanto non raggiungerò mai i risultati). In tutti i campi invece vale l’impegno: la regola delle 10.000 ore (Anders Ericsson) di impegno per diventare un “talento”. Il libero arbitrio, la libertà di scelta (Steven Covey) è alla base del nostro destino.
In questa prospettiva il merito (che diventa impegno) sembrerebbe più democratico o perlomeno più “giusto”.
Ma è innegabile anche la tesi secondo la quale è l’ambiente in cui si nasce e si vive a condizionarci. E il nostro agire non è frutto della libertà di scelta, ma del caso.
Credo che queste tesi contrapposte continueranno ad esistere ed entrambe hanno fondamento e ragione viste in situazioni e prospettive diverse.
In sintesi se vogliamo una economia fiorente, per le imprese deve valere il merito, così come nella scuola e nello sport. Il risultato a lungo andare è sempre frutto del merito e dell’impegno.
La democrazia però deve avere dei sistemi corretti di distribuzione del benessere, del reddito e anche della rappresentanza, indipendentemente dalle capacità e dai risultati individuali frutto anche del merito e dell’impegno, ma molto spesso del caso.
Stefano Pivi
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